Introduzione

L’infezione da SARS-CoV-2 è rapidamente diventata una pandemia globale, con già oltre 100 milioni di persone infettate e 2,3 milioni di morti nel mondo. Nonostante un’ampia percentuale dei pazienti sia asintomatica, la presentazione caratteristica dell’infezione è una polmonite interstiziale bilaterale, che può complicarsi in una sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) e/o sepsi. Col passare dei mesi numerose altre manifestazioni cliniche sono state associate all’infezione acuta da SARS-CoV-2. Diversi studi nell’ultimo anno hanno indagato eventuali associazioni tra l’infezione e manifestazioni patologiche del sistema endocrino. In questa rassegna si discuteranno brevemente le interazioni tra infezione da SARS-CoV-2 e la funzione tiroidea, la vitamina D e il diabete.

COVID19 e tiroide

Diversi Gruppi hanno studiato la possibile presenza di relazioni tra l’infezione da SARS-Cov-2 e la patologia tiroidea (Tabella 1). Diversi meccanismi eziopatogenetici sono stati proposti alla base di tale possibile correlazione: in primis, il noto ruolo delle infezioni virali come trigger di forme autoimmuni di tiroidite, l’evidenza di alterazioni della funzione tiroidea in pazienti infettati dal virus della SARS nel 2002 e l’espressione ad alti livelli di angiotensin converting enzyme 2 (ACE2) nel tessuto tiroideo, che il virus SARS-CoV-2 utilizza per “penetrare” nelle cellule infettate [1].

Tabella 1 Relazioni esistenti tra infezione da SARS-CoV-2 e patologia endocrina

In base agli studi ad oggi disponibili, non c’è evidenza di maggiore rischio di infezione in pazienti con tireopatia autoimmune, né maggior rischio di sviluppare forme severe. Sebbene sia stata indagata la possibile insorgenza di agranulocitosi in pazienti in terapia con farmaci anti-tiroidei, non ci sono evidenze che tali farmaci conferiscano un aumentato rischio per lo sviluppo di infezioni severe [2]. Valori di funzione tiroidea non controllati non sembrano aumentare il rischio infettivo, mentre appare si assocerebbero a rischio aumentato di sviluppare complicanze nel corso dell’infezione. Sono da considerare a rischio elevato di forme severe le pazienti gravide con patologie tiroidee e i pazienti con oftalmopatia basedowiana in trattamento con farmaci immunosoppressivi [3].

Numerosi case reports e alcune case series hanno evidenziato la presenza di una maggiore frequenza di tireotossicosi nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 [2]. In uno studio italiano, Muller e collaboratori hanno confrontato i pazienti ricoverati in terapia intensiva per infezione da SARS-CoV-2 nel 2020 (HICU-20) con quelli ricoverati nello stesso reparto nel 2019 (HICU-19). I pazienti HICU-20 presentavano livelli di TSH significativamente ridotti rispetto a quelli HICU-19 e nel 15% dei casi era presente una condizione di tireotossicosi (vs 1% nel gruppo HICU-19) [4].

Nello studio THYRCOV, Lania e colleghi hanno invece valutato retrospettivamente la funzione tiroidea e i livelli di interleuchina-6 (IL-6) in 287 pazienti ricoverati per COVID-19 in reparti di terapia non intensiva; 58 pazienti (20,2%) presentavano un quadro di tireotossicosi che risultava essere significativamente associata a livelli elevati di IL-6 circolante rispetto ai pazienti COVID+ in eutiroidismo. Sebbene gli anticorpi anti-recettore del TSH (TRAb) non siano stati dosati in tutti i pazienti, la negatività ai TRAb si pone come ulteriore elemento a supporto della tesi di una tiroidite distruttiva su base virale sostenuta da SARS-CoV-2 [5].

Khoo et al non hanno, invece, osservato in una coorte di pazienti inglesi con sospetto SARS-CoV-2, alcun caso di tireotossicosi, nonostante i pazienti SARS-CoV-2+ mostrassero un TSH e una fT4 più bassi rispetto ai pazienti COVID- al momento del ricovero. Gli autori concludevano che non fosse indicato lo screening per la funzione tiroidea al momento del ricovero dei pazienti COVID-19+ [6]. Va infine ricordato come una metanalisi pubblicata nel luglio 2020 abbia dimostrato una correlazione positiva tra patologia tiroidea e forme severe di SARS-CoV-2, con OR 2,48 (95% CI 1,32–4,66; \(p = \mbox{0,005}\)). In tale metanalisi non appare tuttavia chiaro quali cutoff siano stati utilizzati per la definizione della patologia tiroidea e la prevalenza dei pazienti in terapia corticosteroidea negli studi selezionati [7].

COVID-19 e diabete

Il diabete mellito (DM) è una delle più frequenti patologie croniche con 463 milioni di persone affette al mondo nel 2019. La sua prevalenza è destinata a crescere negli anni, arrivando a 700 milioni di persone nel 2045 [8]. Vivissimo è stato l’interesse della comunità scientifica nello studiare la relazione esistente tra il diabete e l’infezione da SARS-CoV-2 (Tabella 1).

Mantovani e collaboratori, in una metanalisi coinvolgente 83 studi e 78.874 pazienti ricoverati per SARS-CoV-2, hanno evidenziato una prevalenza di DM del 14,34% dei casi, maggiore nella popolazione non asiatica rispetto a quella asiatica (23,34 vs 11,06%) e nei soggetti di età superiore ai 60 anni rispetto a individui più giovani (23,30 vs 8,79%). Lo studio ha messo in evidenza che il diabete preesistente si associa a un rischio 3 volte superiore di mortalità ospedaliera per SARS-CoV-2 rispetto a pazienti senza DM. I diabetici, inoltre, hanno un rischio circa doppio di sviluppare forme di malattia più severa, necessitando di cure in reparti di terapia intensiva [9]. Tali dati sono in accordo con quanto osservato in corso di infezioni quali la SARS e la MERS, sostenute da altri Coronavirus [10, 11]. Considerato il forte impatto dell’infezione da Sars-CoV-2 e la grande rilevanza epidemiologica del diabete, si è cercato di comprendere quali meccanismi patogenetici fossero alla base di outcome così sfavorevoli. Molteplici fattori concorrono a generare questo quadro. La maggior parte degli studi si concentra sul DM di tipo 2, malattia metabolica associata a una disfunzione del sistema immunitario, innato e adattativo (alterata fagocitosi da parte dei leucociti, alterata chemiotassi e attività battericida dei neutrofili). Il DM si caratterizza per l’accumulo di macrofagi, neutrofili, cellule dendritiche, linfociti B e T in molteplici tessuti, causando un’infiammazione cronica indotta dalla produzione di citochine e chemochine in eccesso. Il diabete è inoltre associato a uno stato pro-trombotico, con un disequilibrio tra fattori coagulativi e fibrinolitici, con un aumentato rischio di eventi tromboembolici [12]. È di interesse il dibattito in corso sui possibili rapporti tra ACE-2 e dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4), entrambi recettori cellulari per il Coronavirus.

La proteina virale spike interagisce con ACE-2, mediando l’ingresso del virus all’interno delle cellule [13]. Si è ipotizzato che i soggetti diabetici possano presentare una maggiore espressione in membrana di ACE-2, anche a causa delle terapie spesso in corso con modulatori del sistema renina-angiotensina (RAS), quali ACE inibitori e sartani. Da qui, deriverebbe una facilitazione nell’uptake virale e l’aumentato rischio di malattia severa [9]. Evidenze più recenti hanno tuttavia escluso l’associazione tra i farmaci modulatori del RAS e aumentata suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2, così come è stata esclusa l’associazione con forme di malattia più severa e maggiori tassi di mortalità. Il legame della proteina spike al recettore ACE-2 induce la downregulation dello stesso, la quale comporta un aumento nella concentrazione di angiotensina II, a causa della sua ridotta clearance/conversione ad angiotensina [17] da parte di ACE-2. Il pathway dell’angiotensina appare iperattivo derivandone una costrizione dei vasi polmonari e aumentata infiammazione. L’uso degli inibitori di RAS appare a questo punto, almeno in teoria, protettivo verso la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), principale causa di morte per SARS-CoV-2. Mancano, tuttavia, delle solide evidenze a riguardo in trial in vivo [14].

La DPP-4 è una glicoproteina transmembrana espressa in molteplici cellule, incluse quelle del sistema immunitario. Gioca un ruolo essenziale in questo contesto, modulando l’attivazione e la proliferazione dei linfociti T e la produzione di citochine infiammatorie. È nota, inoltre, una forma solubile di DPP-4 circolante con attività enzimatica, fondamentale nel metabolismo glicidico: degrada il glucagon like peptide 1 (GLP1), ma anche citochine, chemochine e fattori di crescita. Recenti evidenze hanno sottolineato che DPP4 è un recettore funzionale per la glicoproteina spike del MERS-CoV, filogeneticamente correlato al Sars-CoV2. Da qui, si è ipotizzato che l’inibizione di DPP4 potesse avere un ruolo nel bloccare l’ingresso del virus nelle cellule ospiti e nel ridurre la tempesta citochinica e l’infiammazione polmonare. A questo proposito, il gruppo di Mirani ha evidenziato un minor ricorso alla ventilazione invasiva e un minor tasso di mortalità nei pazienti diabetici Sars-CoV-2+ in trattamento con DPP4 inibitori rispetto a pazienti in terapia con altri ipoglicemizzanti (aHR 0,13, 95% CI 0,02–0,92; \(p = \mbox{0,042}\)) [15].

Nel corso dei mesi sono state tuttavia raccolte delle evidenze contrastanti circa l’uso dei DPP4 inibitori e l’outcome dei pazienti diabetici affetti da SARS-CoV-2. Per questo motivo, allo stato attuale non è possibile arrivare a una conclusione univoca e sono necessari ulteriori trial clinici randomizzati per comprendere se effettivamente gli inibitori di DPP4 possano migliorare la prognosi dei pazienti diabetici con infezione da SARS-CoV-2. Si tratta, in ogni caso, di una terapia sicura ed efficace per gestione dei pazienti con DM e SARS-CoV-2 [16].

In questa coorte di pazienti, l’iperglicemia è la risultante di più fattori: l’insulino-resistenza preesistente e acuita dallo stato infiammatorio, il danno delle cellule beta pancreatiche, che esprimono il recettore ACE-2 in membrana, la condizione di stress e l’utilizzo terapeutico dei glucocorticoidi. Il gruppo di Zhu ha messo in evidenza che i diabetici colpiti dall’infezione e aventi valori glicemici non ben controllati (glicemia >10 mmol/L) vanno più frequentemente incontro a complicanze severe, come insufficienza renale, cardiaca, respiratoria e coagulazione intravascolare disseminata. A loro si associano tassi di mortalità più alti [17]. Coppelli e i suoi collaboratori hanno addirittura identificato un outcome peggiore in quei pazienti che, senza storia di diabete mellito noto, presentano una glicemia >7,78 mmol/L al momento dell’ammissione in ospedale. L’iperglicemia è un fattore indipendente associato a una prognosi più severa nei soggetti ospedalizzati per COVID-19 [18]. Interessante è dunque valutare l’azione dei diversi farmaci ipoglicemizzanti. La terapia abituale può essere continuata se il paziente diabetico riesce ad alimentarsi e idratarsi in maniera normale, mantenendo un adeguato controllo glicemico. Con forme di infezione più severa, che rendono necessaria l’ospedalizzazione, va considerata la modifica della terapia domiciliare, sulla base dello stato nutrizionale, del controllo glicemico, rischio di ipoglicemie, funzione renale e interazione con altri farmaci.

La metformina è il farmaco di prima scelta per il trattamento del DM2, con effetti favorevoli nei pazienti infetti, data una sua probabile azione antinfiammatoria [19]. Occorre tuttavia prestare attenzione in caso di sviluppo di insufficienza respiratoria severa, poiché la metformina potrebbe favorire l’acidosi lattica. È stato inoltre suggerito un ipotetico effetto antivirale degli inibitori di sodium-glucose transport protein 2 (SGLT2), dal momento che questi agenti riescono ad abbassare il pH intracellulare e incrementare la concentrazione di lattati, riuscendo a ridurre la carica virale [20].

L’insulina rimane il trattamento ipoglicemizzante di scelta nel caso di infezione più severa, con diabete mellito scarsamente controllato e in pazienti con malattie cardiovascolari e renali, essi stessi fattori di rischio per outcome infausti [12, 21].

COVID-19 e ipovitaminosi D

La pandemia da COVID-19 ha messo in risalto il ruolo svolto dalla vitamina D nella regolazione del sistema immunitario (Tabella 1). Tale ruolo è stato, in realtà, già ampiamente analizzato in passato da studi, dai quali emerge un effetto protettivo della vitamina D nei confronti delle infezioni respiratorie acute [22]. Inoltre, è stato studiato in modelli animali che la vitamina D influenza la risposta immunitaria interagendo con il sistema renina-angiotensina (RAS), il quale risulta disregolato nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 [23]. Tali assunzioni, unitamente alla frequente sovrapposizione del deficit di vitamina D a condizioni quali età avanzata e obesità, già associate a forme più severe di infezione da SARS-CoV-2, hanno portato diversi ricercatori a esaminare il possibile impatto del deficit di vitamina D in tali pazienti, in termini di maggior rischio di contrarre l’infezione, decorso di malattia e mortalità.

La vitamina D, attraverso l’interazione della sua forma attiva con il recettore VDR espresso dalle cellule del sistema immunitario e dalle cellule epiteliali polmonari, contribuisce alla regolazione della risposta immunitaria, inducendo la trascrizione di peptidi antimicrobici quali le catelicidine e le defensine. Le catelicidine sono coinvolte nella distruzione della membrana cellulare dei batteri, così come dei virus dotati di envelope, categoria a cui appartiene SARS-CoV-2, mentre le defensine inducono un aumento della permeabilità capillare polmonare promuovendo la chemiotassi delle cellule infiammatorie [24]. D’altra parte, la vitamina D riduce l’espressione dell’IL-6 e del TNF-alfa, marker pro-infiammatori coinvolti nello “storm citochinico” che precede ARDS e che rappresenta una delle possibili evoluzioni della polmonite da SARS-CoV-2 [25].

Una metanalisi pubblicata a novembre 2020 ha unificato 21 studi e ha confermato che il deficit di vitamina D si associa a forme più severe di infezione da SARS-CoV-2 (dato confermato in 10 studi, OR: 1,65; 95% CI: 1,30–2,09), a un maggior rischio di ospedalizzazione (dato confermato in 3 studi, OR: 1,81, 95% CI: 1,41–2,21) e a una maggiore mortalità (dato confermato in 5 studi, OR: 1,82, 95% CI: 1,06–2,58). Non è stata, invece, confermata l’associazione tra deficit di vitamina D e maggior rischio di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 [26].

Tuttavia, da un’altra metanalisi, pubblicata a dicembre 2020, che ha raggruppato 10 studi con differenti background etnici (Asia, Europa, America) si evince, invece, che bassi livelli di vitamina D possano determinare un maggior rischio di contrarre l’infezione da SARS-Cov-2 (OR: 1,43, 95% CI: 1,00–2,05). Da questo lavoro è inoltre emerso che i soggetti SARS-CoV-2 positivi hanno valori di vitamina D più bassi rispetto ai soggetti SARS-CoV-2 negativi [27].

È rilevante, infine, considerare che la presenza di comorbidità, quali obesità, ipertensione, diabete, scompenso cardiaco e COPD, possa rappresentare un fattore confondente nello studio della relazione tra deficit di vitamina D e infezione da SARS-CoV-2, in quanto tali condizioni sono considerate esse stesse fattori condizionanti la severità dell’infezione da SARS-CoV-2. Tale aspetto è stato analizzato in una metanalisi, pubblicata a luglio 2020, che ha unito i risultati di 6 studi, in cui sono stati selezionati 376 pazienti con scarse comorbidità o in cui la presenza delle stesse non è risultata significativa per la prognosi della malattia da SARS-CoV-2. Pertanto, i pazienti con livelli deficitari di vitamina D affetti da infezione da SARS-CoV-2 hanno una prognosi peggiore dei pazienti con livelli normali della stessa, indipendentemente dalla presenza di comorbidità [28].

Un recente studio retrospettivo condotto presso l’Istituto Clinico Humanitas su 387 pazienti ospedalizzati per infezione da SARS-CoV-2 ha analizzato l’effetto sia del deficit di vitamina D sia dell’iperparatiroidismo secondario sull’outcome di tali pazienti. In tutti i pazienti sono stati valutati i livelli di vitamina D ed è emerso che i pazienti con deficit pre-esistente della stessa (<12 ng/mL) sono esposti a un rischio maggiore di insufficienza respiratoria acuta (OR: 2,48, 95% CI: 1,29–4,74; \(p = \mbox{0,006}\)). I valori di PTH sono stati, invece, valutati in 97 pazienti ed è emerso che i pazienti con iperparatiroidismo secondario, indipendente dai livelli di 25-OH vitamina D, erano più frequentemente esposti all’insorgenza di insufficienza respiratoria acuta (\(p = \mbox{0,001}\)) e richiedevano più frequentemente il ricorso alla ventilazione (\(p = \mbox{0,031}\)) rispetto a pazienti con valori normali di PTH. In tal senso, è possibile ipotizzare che il PTH possa svolgere un ruolo indipendente nell’evoluzione della polmonite da SARS-CoV-2, possibilmente mediato dagli effetti pleiotropici del PTH sul processo infiammatorio e sulla performance cardio-respiratoria [29].

La maggior parte degli studi analizzati presenta dei limiti, quali la difficoltà nello stabilire se tale deficit rappresenti una causa di severità della malattia o una conseguenza della stessa, la frequente mancanza di stratificazione del campione per sesso e comorbidità, la variabilità dei livelli di vitamina D pre-esistenti in relazione al periodo dell’anno a cui fanno riferimento i dati (autunno vs primavera) e il fatto che si tratta di studi esclusivamente retrospettivi. Ciò nonostante, tutti concordano che la prognosi dell’infezione da SARS-CoV-2 sia influenzata anche dai livelli di vitamina D. Questo ha portato nella pratica clinica a una maggiore attenzione alla valutazione dei livelli di vitamina D in tali pazienti e allo studio dei possibili benefici derivanti dalla supplementazione della stessa nei pazienti in cui si riscontrano bassi livelli.

A tal proposito, è importante sottolineare che non è facile dimostrare il beneficio che la supplementazione di vitamina D può portare a tali pazienti in quanto, in primo luogo, è difficile discriminare l’effetto della vitamina D laddove viene somministrata insieme a farmaci antinfiammatori e, in secondo luogo, i pazienti che vanno incontro a ospedalizzazione sono in una fase avanzata di malattia in cui l’effetto antivirale della vitamina D potrebbe non essere più clinicamente rilevante [30]. In tale senso, si segnala uno studio pilota condotto in un singolo centro con 76 pazienti, il quale ha concluso che la supplementazione di vitamina D con alte dosi di calcifediolo (25-OH vitamina D) in pazienti ospedalizzati per COVID-19 riduca significativamente la severità della malattia e la necessità di ricovero in unità di terapia intensiva (OR: 0,02, 95% CI: 0,002–0,17) [31]. Tuttavia, altri trials hanno mostrato risultati contrastanti; pertanto, saranno necessari ulteriori studi multicentrici per poter meglio definire il ruolo di una terapia di supplementazione di vitamina D in tali pazienti.

Conclusioni

In conclusione, le tireopatie non appaiono complessivamente un elemento clinico alla base di un quadro più severo nell’infezione da SARS-CoV-2, né di una maggiore mortalità; solamente le specifiche coorti di pazienti sopra descritte richiedono un monitoraggio più stretto per rischio aumentato di forme gravi. Il COVID-19 si pone inoltre come probabile trigger immune per la comparsa di patologie di interesse endocrinologico e può causare, in una percentuale significativa di pazienti, una tireotossicosi durante il corso dell’infezione.

Il diabete mellito è complessivamente associato a un maggiore rischio di infezione severa e mortalità da SARS-CoV-2. Non bisogna trascurare, inoltre, che i pazienti con diabete sono in genere più anziani, presentano frequentemente numerose comorbidità, tra le quali spiccano ipertensione, malattie cardiovascolari, cerebrovascolari, obesità. Tutto ciò impone di prestare particolare attenzione a questa categoria di pazienti, anche se con sintomi di infezione moderati, e di riservare particolare interesse al controllo glicemico.

In relazione al ruolo svolto dalla vitamina D nella regolazione del sistema immunitario si può concludere che i soggetti con livelli deficitari della stessa sono esposti a un maggiore rischio di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2, a quadri polmonari più severi e a una maggiore mortalità correlata. Saranno necessari, invece, ulteriori studi per chiarire il ruolo della supplementazione di vitamina D in tali pazienti, in quanto i trials sinora condotti hanno mostrato risultati contrastanti.